Il mondo a catafascio

Ci sono due avvenimenti che ultimamente mi stanno molto preoccupando, a livello mondiale. Il primo è il terremoto in Giappone, che mi addolora immensamente per tutto ciò che ha causato al popolo nipponico, cui non può andare molto oltre che la mia solidarietà. Ma, al di là del fatto che sono assolutamente convinto che il Giappone si riprenderà e anche in tempi sorprendentemente brevi (relativamente alla dimensione della catastrofe), c’è dell’altro che mi preoccupa. Non è di sicuro il problema alla centrale nucleare di Fukushima, che ho fiducia che riusciranno a contenere ed in pochi giorni sarà probabilmente risolto.

Si tratta del fatto che l’economia del Giappone, al momento, è in ginocchio e ci vorrà comunque del tempo per farla riprendere. Hanno grossi problemi di produzione di energia elettrica. Una buona parte della produzione industriale è ferma. O distrutta. E se l’economia del Giappone è in ginocchio, quella del resto del mondo trema. Tutti questi sforzi per uscire dalla crisi, e rischiamo di ripiombarci… Lo sanno di sicuro anche nel Sol Levante.

A parte questo, ciò che mi turba ancora di più è, inutile dirlo, la crisi libica. Da 42 anni Gheddafi domina col pugno di ferro la Libia. Gheddafi è un uomo abietto, doppiogiochista e indegno di qualsiasi fiducia, attaccato al potere con tutti i mezzi e con una faccia tosta che non è seconda a nessuno. Non ha esistato a bombardare la sua stessa gente pur di mantenere il controllo sulla Libia, ed un individuo del genere merita solo di marcire in un antro buio per il resto dei suoi giorni. Per poche altre persone al mondo posso esprimere un tale livello di astio, e posso solo dire che non è cominciato con questa crisi libica, ma è ben fermo sin da quando ho cominciato a capire la pasta dell’uomo (i miei genitori passarono diversi mesi in Libia verso la fine degli anni ’70, quindi mi hanno raccontato di esperienze dirette).

Sino ad un paio di settimane fa poteva sembrare che l’insurrezione libica, al pari di quella tunisina ed egiziana, sfociasse in un successo. Molte città erano sotto controllo dei ribelli. Ma non si sono fatti bene i conti col fatto che Gheddafi non è Mubarak e non è Ben Alì, e non ha la minima coscienza di cosa possa essere un Paese civile e come lo si possa governare. Senza pensarci due volte, ha mobilitato il suo esercito contro la sua stessa popolazione ed ha assoldato migliaia di mercenari stranieri.

E “noi” cosa siamo stati a fare? Ma, soprattutto, chi siamo “noi”? Perché prima di rispondere a Gheddafi, bisogna essere consapevoli di chi siamo “noi” e cosa possiamo fare. “Noi” siamo noi Italiani? Il popolo che più ha avuto contatti commerciali, diplomatici e politici con la Libia negli ultimi anni? Cosa può fare l’Italia, in questo caso? Poco o nulla, in questo caso. L’amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, vera o di facciata che sia, non può nulla contro le azioni di un assassino. Di certo, l’Italia non può agire militarmente da sola, e ha bisogno di importanti partner a livello internazionale per poter fare qualcosa a livello diplomatico.

“Noi” siamo l’Europa? Quell’Unione Europea che sta dimostrando ancora una volta che non è capace di parlare con una voce sola? Alcuni membri che negano che ci sarà mai un’emergenza profughi che colpirà il Mediterraneo? Molto comodo dirlo dalla Scandinavia! O l’Europa di Sarkozy che riconosce già il Consiglio Nazionale Transitorio della Libia, senza tenere conto che è molto facile sostenerlo a parole ma poi a tutto ciò non c’è alcun fatto concreto a seguito? L’Italia deve per forza schierarsi con i suoi vicini europei, ma questi non hanno una vera posizione se non nel disconoscere Gheddafi con leader libico, il cui unico frutto finora è stato ottenere la promessa di ritorsioni economiche da parte del Colonnello. Nei confronti soprattutto dell’Italia, nonostante il governo si sia espresso sempre in maniera molto cauta.

E del resto, che poteva fare l’Italia se non essere cauta, dal momento che c’è tutto questo tentennamento a capire in fondo il problema che ci può attanagliare? Ci fosse stata una vera posizione unitaria e d’azione su più fronti, diplomatico, politico ed anche militare, l’avrei capito. Invece anche la posizione francese, che in altri momenti avrei apprezzato, dimostra che anche una voce importante come quella della Francia può rimanere isolata. Anche la Gran Bretagna non mostra per nulla l’interventismo che ebbe per l’ultima guerra in Iraq.

“Noi” siamo la comunità internazionale? L’ONU? Ma per favore, siamo seri! Ditemi un solo conflitto nella storia che l’ONU sia mai riuscito ad evitare. Una sola crisi che abbia risolto. Ma perché mai dovrebbe avere una qualche capacità di decidere un’istituzione in cui si riuscono tutti quanti, Paesi democratici e dittatoriali, regimi pacifici e guerrafondai, potenze economiche e lande di miseria, élite culturali e tribù arretrate, comunità laiche e ridde di fondamentalisti. Semplicemente non ha alcun senso. Tra tutti i Paesi cui una questione umanitaria non può fregare di meno, l’unico obiettivo sarà solo il massimo personale. E la cosa si fa ancora più evidente se si pensa che ci sono cinque membri che, per ragioni del tutto anacronistiche, hanno un potere superiore a tutte le altre, essendo membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e avendo sempre diritto di veto sulle questioni riguardante la sicurezza internazionale. Come questa. Ed infatti, alla Russia ed alla Cina non gliene importa niente del popolo libico, e sperano solo di ottenere il petrolio della Cirenaica, ed è per questo che non vogliono inimicarsi Gheddafi e sono contrarie alla no fly zone che doveva essere già attiva da almeno tre settimane (e membro di turno nel Consiglio di Sicurezza quest’anno è anche l’India, che avrebbe anch’essa i suoi interessi di natura energetica). Anche qui, insomma, c’è lo stallo più completo.

Chi rimane? “Noi” del Patto Atlantico? Già, la NATO. L’unica organizzazione che aveva mostrato finora un polso a volte pure esagerato. Basti pensare a come è stato rovesciato il regime di Saddam Hussein con un pretesto (non che il baffone non se lo meritasse, ma la cosa ha lasciato pesanti strascichi ed andava gestita molto meglio, a partire dal fatto che, appunto, è successo tutto per un pretesto). La vera potenza dietro la NATO sono gli Stati Uniti d’America. E a capo degli Stati Uniti c’è Barack Obama, in premio Nobel per la pace.

Ma che sta facendo questo signor premio Nobel per assicurare la pace? Assolutamente nulla! Da 5000 chilometri di distanza lancia ammonimenti, proclami di sdegno e blocco dei fondi, ma alla fine il vero impegno concreto non ce lo sta mettendo. Tutte le misure prese finora si sono dimostrate inefficaci contro Gheddafi, che si sta riprendendo il territorio che gli era sfuggito. E ora non c’è più tempo per altro, perché gli insorti non resisteranno che per altri pochi giorni ed un conto congelato non sarà servito a nulla. Per quanto sia difficile da dire, l’unica cosa che può fermare Gheddafi è un intervento militare a supporto dei ribelli, sono i Marines che sbarcano in Cirenaica e prendono a calci nel sedere la milizia del Colonnello, sono le SAS che rispediscono al mittente i mercenari dell’Africa subsahariana, sono gli Eurofighter che spengono sul nascere qualsiasi tentativo di effettuare bombardamenti. Con uno come Gheddafi, le chiacchiere stanno a zero ed è sempre stato lui stesso a metterlo in chiaro, se qualcuno non l’avesse capito.

E invece, quanto di tutto questo sta accadendo? Niente di niente, neanche uno straccio di supporto logistico agli insorti. Anche la Lega Araba ha espresso il suo appoggio alla no fly zone, ma io mi sto ancora chiedendo cosa stiano aspettando gli Stati Uniti a dare il via libera alle operazioni. Non vorranno davvero aspettare l’appoggio dell’ONU? Perché Obama è immobile? Cos’altro stiamo aspettando? Veramente, mai come in questo momento risulta chiaro come gli Stati Uniti abbiano il potere di raddrizzare una situazione molto pericolosa e drammatica, e invece tentennano. Ho l’idea che prima o poi gli Americani si accorgeranno di tutto questo e tra un anno e mezzo daranno il ben servito al loro premio Nobel, che sta dimostrando molto meno coraggio del suo Segretario di Stato.

L’Europa per ora rimane ferma a disconoscere Gheddafi, ma cosa succederà se davvero il leader libico avrà la vittoria finale? Cosa potremmo dire a chi ci chiederà perché abbiamo permesso che, nel disperato tentativo di disfarsi di un dittatore sanguinario, tanti libici morissero? Che non eravamo d’accordo? Fino a che punto potremo tapparci occhi e orecchie e fare finta che si tratti solo di uno Stato che sta semplicemente dirimendo una questione interna?

Se non si prendono decisioni, Gheddafi vincerà e ce l’avrà con tutto il mondo occidentale che l’ha scaricato (e che, a dire il vero, non vedeva l’ora di farlo). Che farà il mondo occidentale, che ha disconosciuto Gheddafi? In Libia l’Italia ha contratti commerciali. In Libia ci sono italiani che lavorano. E se per pure miracolo vinceranno gli insorti, chi dovranno ringraziare? Non ce l’avranno a loro volta con il mondo occidentale che ha permesso che per oltre un mese prendessero bombe in testa? E a quel punto da chi avranno concreta solidarietà? Dalla Cina, dalla Russia? O magari dagli estremisti islamici che altro non aspettavano?

Insomma, comunque la si guardi mi pare che si stia profilando un disastro. Aspetto con ansia le prossime notizie.

La fine ingloriosa…

È finita. Tristemente finita. Non mi spreco nemmeno a guardare la fine della partita.

Dopo la prima partita avevo già ravvisato le difficoltà a segnare della nostra Nazionale, ma speravo che si sarebbero risolte grazie al buon gioco che si è fatto vedere. Invece è accaduto il contrario: i gol non sono arrivati ed anche il gioco è andato impallidendosi. Troppo facile dominare il centrocampo contro la Nuova Zelanda: serviva un risultato secco e deciso contro la Slovacchia. Invece ecco due gol slovacchi e noi che andiamo a casa.

Una Nazionale senza idee, che si riflette sistematicamente nella faccia da pesce lesso di Marcello Lippi, che chiaramente non ha mai saputo che pesci pigliare per raddrizzare la squadra. L’unica mossa è stata far entrare Pirlo, senza il quale sembra che la squadra sia perduta e questo non è più possibile accettarlo data l’età del milanista che non è più tanto verde. Alla fine il gol è arrivato, tanto cuore si dirà. Si è sfiorato anche il pareggio. E nella confusione si è preso il terzo gol…

Era una Nazionale, diciamocelo proprio, che già dalla Confederation Cup dell’anno scorso mostrava abbondanti limiti. Forse è solo la terra di Sud Africa a farci male, ma non posso crederci. Forse mancano le qualità. Ma soprattutto mancano le idee, non mi stancherò mai di ripeterlo. E non mi consola l’essere sempre stato scettico sul ritorno di Lippi alla guida della Nazionale, perché sapevo che il ciclo, una volta fermato, non si può riprendere. I risultati si sono visti.

Qualcuno dirà che se avessimo vinto il Mondiale sarei saltato sul carro del vincitore. Beh, avrei fatto ben di più: sarei andato a Lourdes, perché se quella del 2006 fu un’impresa, questa sarebbe stata proprio una grazia della Madonna.

Mi consola il fatto che come commissario tecnico arriva ora Cesare Prandelli, uomo e allenatore che stimo tantissimo, e non solo da tifoso viola. Mi deprime il fatto che usciamo al primo turno come la Francia, ultimi del girone come la Francia. Bella figuretta.

Published in: on giovedì, 24 giugno 2010 at 15.55  Lascia un commento  
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Ritorno mondiale

Alla fine di nuovo i Mondiali di calcio. Siamo partiti con tanto scetticismo da parte dei nostri tifosi, ed in effetti c’era più di un motivo: la brutta partita col Messico è sempre fresca, ed ancora non siamo riusciti a battere la Svizzera. Ma era soprattutto la condizione fisica degli Azzurri a preoccupare.

È appena finita la nostra partita col Paraguay, dove l’Italia ha raccolto un pareggio per 1-1 ma i 90 minuti hanno raccontato ben altri equilibri. E sono equilibri che fanno ritrovare un po’ di fiducia ai nostri sostenitori che, in ogni caso, non hanno mai fatto mancare il loro tifo. A prescindere. I motivi per essere più sereni sono consistenti perché, detta in poche parole, la partita l’abbiamo fatta noi, con possesso di palla ed azioni propositive molto ficcanti.

La nostra sfortuna è stata subire una rete praticamente sulla prima palla pericolosa dei sudamericani, e forse, con un Buffon in migliori condizioni fisiche, sarebbe andata diversamente (dico forse: la palla era molto angolata, il buon Gigi avrebbe dovuto letteralmente volare… ma non sarebbe stata la prima volta). La squadra però, dopo i minuti finali del primo tempo giocati un po’ nervosamente, non si è persa d’animo e nel secondo tempo (con Marchetti al posto di Buffon unico cambio) si è riproposta esattamente come nel primo tempo, a fare gioco ed a macinare metri di campo. Alla fine è arrivato il pareggio, non durante un’azione ma su calcio d’angolo, grazie ad un De Rossi che è cresciuto nettamente nella seconda frazione.

I nostri giocatori non hanno mai mollato, hanno continuato ad attaccare fino alla fine, segno comunque del carattere giusto con cui si deve affrontare un Mondiale di calcio. I paraguayani sono stati costretti a giocare di rimessa, peraltro combinando molto poco (loro che erano riusciti a castigare anche Brasile e Argentina durante le qualificazioni). Tra i migliori in campo direi: Pepe, con una grande piglio ed un’ottima condizione fisica, ha corso ed attaccato per tutta la partita; Montolivo, sempre più candidato ideale a sostituire Pirlo nel prossimo futuro, ha fatto una partita eccellente e di spessore, costruendo geometrie precise e mettendo in difficoltà il portiere avversario con velenose conclusioni da fuori area; Cannavaro che, e non ci credevo, ha mostrato un’ottima forma ed ha amministrato la difesa con la sua enorme personalità ed esperienza (peccato un po’ di resposabilità in occasione della rete avversaria). Bene, come già detto, anche De Rossi, e poi Zambrotta che non si è mai stancato di correre sulla fascia destra. Bene un po’ tutti, in ombra un po’ Gilardino servito poco, e Iaquinta.

Come nota dolente c’è da registrate una cronica difficoltà ad insaccare la palla in fondo alla rete. Ci appoggiamo sempre più spesso al sostegno dei centrocampisti, ed anche oggi uno di loro ha salvato il risultato. Ci manca il vero bomber di razza, di quelli che si esaltano ai Mondiali, alla Vieri, alla Schilaci. Forse ci manca il gioco per far fruttare quelli che abbiamo, ed è forse un problema più di Lippi che della Nazionale, visto che anche nel 2006, insieme a Toni, il nostro migliore marcatore è stato un difensore (Materazzi).

Per questo c’è ancora tempo. Ma, per adesso,

forza azzurri!

Published in: on lunedì, 14 giugno 2010 at 20.46  Lascia un commento  
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Libertà di pestaggio

Forse sarò che sono stato cresciuto in maniera troppo buona, ma ci sono delle cose che effettivamente mi lasciano sbigottito. Un altro, milionesimo parere sull’aggressione a Berlusconi? Ebbene sì, ma vorrei affrontare la cosa in maniera un po’ diversa. Anche perché l’eco ha fatto il giro del mondo, e tante parole sono già state dette. I telegiornali, oggi, non hanno parlato praticamente d’altro.

Non mi soffermerò tanto su Berlusconi, che non è mai stato al top delle mie preferenze politiche ma a cui auguro sentitamente una pronta guarigione. So che si rimetterà, che forse ne uscirà un po’ cambiato ma non basterà a fargli esaurire la spinta che ha sempre messo nella sua azione. Non dirò molto su Di Pietro, che non ha fatto altro che rimarcare il marciume della pasta di cui è fatto, e neppure sulla Bindi che, forse ancora col dente avvelenato verso il premier che l’aveva definita “più bella che intelligente”, ha dato clamorosa prova che Berlusconi non aveva poi tanto torto. Basteranno i loro stessi alleati politici a farli zittire.

Quello che vorrei sottolineare è l’impatto che una cosa del genere può avere sulla vita quotidiana. Mi è stato insegnato che la vita umana è sacra, e che augurare la morte di una persona è pessima e riprovevole cosa anche se si tratta di uno scherzo, ed è giusto incommentabile in un accesso di rabbia, cui però è necessario fare ammenda. Ma qui nessuno è arrabbiato. Io vedo tanti commenti di gente che, con la mente fredda e lucida del giorno dopo, mi induce a pensare: ma se ne rendono conto, di quel che dicono? Penso che un giorno le stesse cose potrebbero dirle di me, ed allora dovrò pregare di non avere tanti avversari come Berlusconi o dovrò stare perennemente sul chi vive.

Non si tratta di quei frustrati che, su Facebook, hanno riempito i gruppi di fan di Tartaglia, inneggiando contro il premier ed istigando all’emulazione. Si sa che Internet, col suo anonimato o presunto tale, toglie le inibizioni che normalmente avremmo nella vita quotidiana, perché in sostanza ci si sente impuniti. No, purtroppo quello di cui parlo è ben più grave, proprio perché viene nella vita quotidiana.

Parlo di coloro che, sorridendo, il giorno dopo lasciano commenti del tipo: “Se fosse morto ero pronto a scendere a festeggiare!” Gente normalissima, che siede accanto a te in ufficio, con cui prendi un caffé al bar e discuti dell’ultima gara di Valentino Rossi.

Parlo di quelli che sono subito sbottati in un: “Ben gli sta!” Di quelli che hanno pensato che, in fondo, Berlusconi se la sia cercata perché è sempre sopra le righe.

Parlo di quelli che no, non farebbero mai una cosa del genere, ed io gli credo pure, ma sotto sotto la “bravata” di quel Tartaglia li ha fatti sorridere e magari hanno pensato che era l’ora che qualcuno gli facesse capire che non è d’accordo con lui.

Parlo di quelli la cui unica preoccupazione, ora, è che la televisione non parlerà d’altro e che quello squilibrato di Tartaglia di Berlusconi ne ha fatto un martire.

Ditemi voi se non avete incontrato almeno uno che la mettesse in questi termini. Io abito in Toscana, ed è più difficile trovare uno che non l’abbia fatto. A parole siamo tutti bravi a condannare, a dire “no” alla violenza, addirittura a chiamarci “pacifisti”. Ma nei fatti, e nell’anima, quanto possiamo esserlo? Perché la gente su menzionata non rappresenta un paio di casi isolati: è una grossa moltitudine che vive tra noi, parla con noi, lavora con noi, ci manda gli auguri di Natale, gente che normalmente definiremmo irreprensibile. Ma è quella gente che trova normale, in una conversazione anche tra sconosciuti, insultare liberamente Berlusconi e dirne contro anche se non si ha la più pallida idea di cosa voti l’altro. Non so voi, ma io non mi sognerei mai di criticare liberamente un qualsiasi esponente politico di fronte ad una persona che conosco appena: è una questione di rispetto, perché se per caso l’interlocutore quella persona la vota e l’appoggia non farei che metterla in imbarazzo. Con Berlusconi, caso strano, questo non sembra valere

Tuttavia, in tanti sono convinti che la colpa, in fondo, sia di Berlusconi. Mi dispiace, ma mi oppongo con tutte le forze ad un concetto del genere. Non voglio, non posso accettare che Berlusconi, o un qualsiasi rappresentante politico, possa in qualche modo spingermi a comportarmi nei modi di “tutti i giorni” che ho su citato. Sono una persona adulta, matura, consapevole dei miei mezzi e delle mie opinioni, dotata del raziocinio che sopprime le mie escandescenze e sostiene le mie ragioni. Per cui, non riconosco a Berlusconi colpa alcuna di quello che è accaduto e trovo indice di mancanza di responsabilità fare diversamente. Io, quel che penso, lo penso perché è frutto della mia mente e del mio raziocinio. E chiunque abbia una concezione simile di se stessi non potrà che essere d’accordo; per tutti gli altri, provo profonda pena.

Sembrerà la frase di un prete, ma mi è stato detto che anche se non si commette un’azione riprovevole, il solo essere solidali con chi l’ha commessa è equivalente ad averla fatta a propria volta. In poche parole, è ipocrisia. Forse non è necessario arrivare a dire tanto, ma certo è superficialità, è noncuranza, è fregarsene del fatto che, prima o poi, uno che la fa sul serio grossa arriverà, e noi non avremo fatto nulla per impedirgli di covare un tale proposito. Massimo Tartaglia non è “figlio” delle esternazioni di Di Pietro: Di Pietro è solo l’ultimo capopopolo che agita le folle col megafono per far apparire più grandi i suoi concetti.

Massimo Tartaglia è nostro figlio, nostro fratello e nostro padre. Ci è cresciuto accanto, lui che, poveretto, è in cura psichiatrica da dieci anni. Io però non sono sicuro che la prossima volta un aggressore possa essere altrettanto instabile. La colpa di Tartaglia, immaginari lettori, parte da se stessi, dai propri conoscenti, dai propri colleghi di lavoro, dai propri amici e parenti, per quanto secchi ammetterlo. Ciò che è successo ieri per me fa parte dello stesso treno di sentimenti che parte dal proprio quotidiano e che ancora una volta è deragliato, ma che trova tante persone pronte a rimetterlo sui binari.

Perché la prima volta fu un treppiede, un bernoccolo e qualche graffio. Questa volta una statuetta, due denti ed un naso rotto, un labbro lacerato e 48 ore di osservazione ospedaliera. Facciamo in modo che la prossima volta non ci scappi il morto, per favore.

Published in: on lunedì, 14 dicembre 2009 at 21.48  Comments (3)  
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Pace dei sensi

Non credo di riproporre un argomento originale parlando del recente premio Nobel per la Pace vinto dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ma a cinque giorni di distanza dall’assegnazione posso mettere insieme alcuni pensieri coerenti.

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama

La prima considerazione, che è venuta subito in mente a tutti, è che Obama non ha fatto poi granché per meritarsi ciò che dovrebbe essere il massimo riconoscimento a chi più di tutti ha concorso attivamente per la pace mondiale. Sfido chiunque a non essersi mostrato stupito all’annuncio della vittoria di Obama, che da appena 10 mesi è Presidente degli Stati Uniti, e che solo in quanto tale può aver fatto qualcosa di significativo (perché un posto da senatore americano, francamente, non mette molto in luce). Anzi, a voler essere cinici, si può dire che la presidenza di Obama è finora quella sotto la quale c’è il maggior sforzo militare in Afghanistan, ed inoltre che un simbolo della pace non dovrebbe rifiutarsi di incontrarne un altro, come invece aveva fatto poco prima col 14esimo Dalai Lama. Perché, di concreto, non c’è stato proprio nulla.

Il fatto che Obama stesso abbia riconosciuto di non meritarsi il premio mi fa ben sperare, ma dall’altra parte mi preoccupa. Dal mio punto di vista, infatti, un Nobel per la Pace dev’essere un simbolo della pace stessa, un esempio per tutti, un’utopia per tanti. Ma può un Presidente degli Stati Uniti operare in questo ruolo? Stiamo parlando della nazione con l’esercito più numeroso, più addestrato e meglio equipaggiato del mondo (c’è giusto quello israeliano che può competere), una nazione con un’influenza politica ed economica impareggiabile. L’ago della bilancia della diplomazia mondiale, quella che più di tutti può raddrizzare i torti e far abbassare la cresta ai dittatori di turno, con le buone… o con le cattive.

Dunque, Barack Obama come il Dalai Lama? Se vogliamo fare una rima sì, ma altrimenti no. Non potrebbero mai esserlo: Barack Obama, come ogni Presidente degli USA, dev’essere il campione della realpolitik, e fare cioè che dev’essere fatto, e non ciò che è giusto fare, perché non sempre ciò che è giusto fare porta ai risultati migliori, quelli che servono davvero al benessere di tutti. Quando, qualche giorno fa, Obama lasciò ad un suo delegato di incontrare il Dalai Lama (mentre il suo predecessore George W. Bush lo incontrò di persona), ne fui contrariato ma riconobbi in Obama il ruolo di colui che sa quello che fa. Ora, invece, come cambieranno le cose?

C’è una crisi economica mondiale da cui ci stiamo sollevando lentamente e delicatamente tutti quanti; c’è una crisi militare in Afghanistan; c’è una crisi politica con Cina, Venezuela, Corea del Nord e soprattutto Iran, che paiono aver rialzato la cresta da quando Barack Obama ha soppiantato Bush. A me, infatti, pare che la linea estera di Obama, così diversa da quella di Bush, abbia portato tante belle parole ma ben pochi risultati concreti, ed anzi abbia procurato agli Stati Uniti ed alla diplomazia mondiale un sacco di perdite di tempo se non dei veri e propri smacchi (i lanci missilistici iraniani ne sono un chiaro esempio). Come dovrebbe reagire un Presidente degli Stati Uniti d’America a tutto questo? Ma la domanda pressante ora è: come reagirà il Presidente degli Stati Uniti e vincitore del Premio Nobel per la Pace Barack Obama?

Gli estremi sono due: o Barack Obama continuerà per la sua strada, lasciando in bacheca il suo importante riconoscimento, oppure cercherà di meritarlo in tutto e per tutto, inquadrando tutto nell’unica ottica pacifista e così indossando le vesti di un ruolo che non gli compete. In mezzo, tutto un ventaglio di possibilità. Capire dove penderà la bilancia, se da quella del Presidente degli Stati Uniti o del Premio Nobel per la Pace, non sarà affatto semplice, ma se dovesse pendere dalla parte del Nobel allora sarò convinto che la scelta del comitato sia stata quanto mai sciagurata. È una mia convinzione, forse verrò smentito dai fatti e vorrà dire che questo mondo è migliore di quanto lo dipingessi, ma al momento sono pessimista. Ed un pessimista, si sa, è solo un ottimista meglio informato…

D’altra parte, un Presidente degli Stati Uniti è comunque alla mercé del suo popolo, ed ora il suo popolo, più che riconoscere in Obama un grande uomo che ha ridato la speranza di pace nel mondo, lo sta canzonando in tutti i modi, sino a dipingerlo come vincitore di premi Oscar, delle Olimpiadi e del campionato di basket. Segno, forse, che gli Americani sono capaci di dare il giusto peso a questo Nobel per la Pace 2009, cioè molto poco, e che lo archivieranno presto come un capriccio politico di un gruppo di benpensanti europei. Insomma, un’ultima chicca dopo i premi Nobel per la Pace dati a dittatori sovietici come Mikail Gorbaciov (1990), a terroristi come Yasser Arafat (1994) ed a pessimi presidenti come Jimmy Carter (2002). Ed allora Obama tornerà ad essere di nuovo il Presidente degli Stati Uniti. E basta.

Io sono sempre stato convinto che il detto romano: “Si vis pacem, para bellum” (“se vuoi la pace, prepara la guerra”), fosse tutt’altro che peregrino, e che contro chi non ha la minima intenzione di ragionare un’azione di forza possa essere efficace per riportare a più saggi consigli, se non proprio ad eliminare il problema per se stessi ed anche per gli altri (senza comunque dover scatenare putiferi come la guerra in Iraq, s’intende), ma non credo che sia quella la filosofia che sta alla base delle motivazioni che hanno portato il Nobel ad Obama. Ed è naturale, quindi, che mi chieda quale strada seguirà.

Al momento, c’è poco da aggiungere. Troppo poco tempo è passato. Contro l’Iran ci sono state parole dure, e nuovamente alludevano all’uso delle armi, ma stavolta a pronunciarle è stata la Segretaria di Stato Hillary Clinton: approccio consuetudinario o cambio di linea politica? C’è solo da aspettare e da capire.

Contro Obama non ho niente in particolare, anche se mi è sempre parso uno che si è sempre vestito delle sue parole. La sua più importante riforma, quella sanitaria (che in Europa sarebbe quasi scontata), in America appare forzosa e anacronistica in tempi di crisi economica. Obama è in difficoltà, forse ingrate, nei sondaggi e lui se la prende con i network che gli sono avversi, un po’ come Berlusconi (con la differenza che la Fox è un gruppo privato). Sono estremamente dubbioso sulla sua politica energetica e sull’idea di basare su di essa il rilancio dell’economia, per non parlare della contemporanea riduzione del debito pubblico. In ogni caso, molto c’è ancora da fare e spero solo che il suo Nobel, più che rimescolare le carte, non le getti proprio all’aria.

Published in: on mercoledì, 14 ottobre 2009 at 22.41  Comments (1)  
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“One small step…”

Sicuramente l’avrete sentito, negli ultimi giorni. Sono passati quarant’anni da quando quel grosso pezzo di roccia che orbita a 384 mila chilometri di media intorno alla Terra è stato raggiunto per la prima volta da un essere umano. Parlarne oggi forse può essere considerato banale e scontato, ma io credo che in primo luogo sia dovuto.

Non posso che a malapena apprezzare la grandezza di quell’avvenimento, dato che allora sarebbe mancato un bel po’ alla mia nascita; e tuttavia, a ripensarci, quella fu davvero un’impresa grandiosa, fatta col vero slancio umano verso il futuro, il progresso, la sfida al nuovo, allo sconosciuto ed all’avverso. Allora non esistevano i materiali di cui disponiamo oggi, non c’erano le tecniche e l’esperienza, ed i loro computer erano di gran lunga meno potenti di una calcolatrice che oggi si trova al supermercato, tanto che la “piattaforma” preferita per i calcoli era sempre la carta e la penna. Un risultato grandioso.

Ed in questi casi si preferisce non ricordare che tale impresa altro non fu che il frutto di un sinistro sforzo politico teso a mostrare la superiorità di una nazione sull’altra. Parimenti, spesso si tralascia il fatto che tante delle nostre scoperte scientifiche ed avanzamenti tecnologici sono il risultato collaterale di un rapporto conflittuale ad alto livello, che praticamente solo nel caso della Guerra Fredda non è sfociato in un effettivo bagno di sangue.

Non voglio stare a disquisire su eventuali benefici di una guerra. Mi rammarico solo che quella meravigliosa e sorprendente spinta verso ciò che è oltre il nostro limite, invece che inaugurare un percorso virtuoso, si è poi in fretta prosciugata una volta raggiunto l’obiettivo primario, lasciandoci press’a poco al livello del 1969: uomo sulla Luna, sonde su Marte (la prima è del 1971), e poco altro.

C’è chi pensa che, prima di pensare di investire nello spazio, si devono prima risolvere i problemi. Giusto.

Giusto?

Ma neanche per sogno! Anche se in effetti mi potrei limitare a liquidare la faccenda ricordando che prima di togliere fondi all’esplorazioni spaziali si dovrebbero eliminare tutte le migliaia di miliardi di veri sprechi, sperperi ed distruzioni che vengono perpetrate sull’orbe terracqueo, aggiungo che nonostante si riuscisse in una tale impresa (che reputo immensamente più difficile) i finanziamenti alla ricerca spaziale debbano comunque essere garantiti, se non proprio una priorità.

Una priorità non solo scientifica, si badi, ma anche sociale e culturale di quest’umanità che, così popolosa, e dalla mente e dal cuore così grande, dopo aver guardato le fiere correre veloci, i pesci nuotare agili, gli uccelli volare leggiadri, ora non può fare a meno di alzare ancora di più gli occhi al cielo e rimirare quanto sono belle le stelle.

È un istinto insito nell’Uomo. Qualcosa che, da animale debole e perdente, l’ha reso grande, forte e vincente più di qualsiasi creatura terrestre. (E da questo, si ricordi sempre, che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, secondo un adagio molto noto tra i lettori di fumetti americani.)

Non credo che la via delle stelle ci debba essere preclusa. Non credo di fare uno sgarbo a nessuno se un giorno l’Uomo colonizzasse la Luna, Marte, le stelle. Non credo in alcun impedimento morale o divino che ci restringa ad un solo pianeta. Prima volgeremo lo sguardo alle stelle, prima capiremo il mondo che ci circonda, ed anche noi stessi.

E allora muoviamoci. Abbiamo già quaranta anni di ritardo.

Published in: on lunedì, 20 luglio 2009 at 21.06  Comments (2)  
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Tesseratto

Tutti hanno presente cos’è un cubo: un oggetto tridimensionale formato da sei facce quadrate poste perpendicolarmente a due a due. Nessun trucco, qui. E nessun trucco se si chiede qual è il “corrispettivo bidimensionale” del cubo: alla maggior parte delle persone verrà in mente il quadrato.

Estendendo questo concetto, ci si può chiedere il corrispettivo unidimensionale del cubo, ma uno può rimanere spiazzato. Eppure il ragionamento può essere intuitivamente semplice: il cubo (così come ogni altro poliedro tridimensionale) è delimitato da facce, mentre il quadrato da lati. Le facce del cubo sono quadrati, mentre i lati del quadrato sono segmenti. Ecco allora che il corrispettivo unidimensionale del cubo è semplicemente un segmento. A questo si poteva arrivare anche in altro modo, ovviamente: stiamo cercando un oggetto unidimensionale, cioè una linea; connesso, vale a dire “tutto d’un pezzo”; limitato, cioè non esteso infinitamente; e chiuso, dove cioè si possa dire con esattezza quali siano i punti che delimitano la figura. Un segmento, in definitiva.

Volendo esagerare, un cubo a “zero dimensioni”, secondo i ragionamenti sopra esposti, è facilmente identificabile in un punto: perché i punti delimitano il segmento, e perché semplicemente gli unici oggetti a zero dimensioni sono proprio i punti. Ma che cosa può essere il cubo a quattro dimensioni?

Se invece che partire dalle dimensioni maggiori per andare verso le minori, come s’è visto ora, si facesse il contrario, ci si rende conto di una cosa: per ottenere un cubo ad una dimensione (un segmento), si prendono due cubi a zero dimensioni (cioè due punti) e li si unisce con un segmento, ottenendo appunto un segmento. Per un cubo a due dimensioni (un quadrato), si prendono due segmenti e ne si uniscono gli estremi con dei segmenti. Infine, per un cubo tridimensionale si prendono due quadrati e si uniscono con dei segmenti. Torna tutto, no?

Come ottenere "cubi" di dimensioni superiori.

E allora ecco che abbiamo un modo per costruire il cubo a quattro dimensioni: prendiamo due cubi e ne uniamo i rispettivi vertici con dei segmenti. Facile, no? Beh, non proprio: un cubo a quattro dimensioni, o ipercubo, vive appunto in quattro dimensioni. Come facciamo allora ad avere la percezione di un oggetto a quattro dimensioni? Possiamo usare la tecnica vista finora? Proviamo:

L'ipercubo

Poco chiaro, vero? In effetti ci si confonde, perché si tratta di una proiezione in due dimensioni di una proiezione in tre dimensioni di un oggetto di quattro dimensioni! E per far mettere i due cubi alla stessa distanza che c’è tra i due vertici di uno spigolo, si è dovuto compenetrarli, cosa che non era capitato per costruire segmento, quadrato e cubo. Insomma, si perdono un mucchio informazioni sulla sua forma. Forse ci può venire in aiuto lo spostare uno dei due cubi all’interno dell’altro:

Un altro modo di rappresentare l'ipercubo.

Spero che sia più chiaro. Se ancora non lo fosse, con il nostro ipercubo, anche detto tesseratto (o tesseract) possiamo fare ancora una cosa: così come spesso abbiamo fatto con il cubo, possiamo “smontarlo”, cioè svilupparlo distaccando gli elementi che lo delimitano. Ecco cosa si ottiene, in confronto a quello che avviene con il cubo:

Cos’altro possiamo dire? Vediamo allora i limiti dell’ipercubo. Ad una dimensione, il segmento era delimitato da due estremi; a due dimensioni, il quadrato da quattro lati; a tre dimensioni, da sei facce. Per l’ipercubo e quattro dimensioni? Possiamo dunque intuitivamente dire che è delimitato da otto… oggetti tridimensionali, che possiamo asserire essere dei cubi, anche se nelle nostre rappresentazioni qui sopra appaiono deformati. Cosa possiamo dire, invece, di vertici, spigoli e facce? Forti di come abbiamo costruito l’ipercubo, possiamo facilmente notare che da una dimensione a quella superiori il numero di vertici raddoppia, per cui l’ipercubo ha 16 vertici contro gli 8 del cubo; che il numero di spigoli triplica (quindi il tesseratto ha 36 spigoli); mentre per le facce non abbiamo ancora esempi, ma se vi mettete a contare vedrete che il loro numero quadruplica rispetto al cubo, quindi l’ipercubo a quattro dimensioni ha 24 facce.

È sempre difficile immaginare oggetti di dimensioni superiori alla terza, ma credo che qualche passo sia stato fatto. Andando avanti per pura astrazione, possiamo già sapere come può essere un ipercubo a cinque, sei… mille dimensioni, anche se non abbiamo idea di come rappresentarli decentemente, né di che farcene!

Published in: on martedì, 14 luglio 2009 at 22.43  Comments (8)  

Anno novello…

Tra poche ore sarà finito il 2008 e sarà cominciato il 2009. Nelle parti più ad est del mondo è già così. Per gli astronauti della ISS (la stazione Alpha) sarà mezzanotte per 16 volte, ma non credo che gli consentano di fare 16 brindisi. E credo neppure uno.

Mi viene in mente che 2009 è un numero assai poco interessante. Non mi ricorda nulla, e non è neppure un numero primo (come il 2011). Però il 2009 potrà forse essere un anno di grandi cambiamenti, in ambito sociale, politico, economico. Un anno di resa dei conti. Un anno che veramente butta vecchi meccanismi e logiche d’azione e ne fonda di nuove. Il 2008 ci ha lasciato tra alti e bassi, il 2009 probabilmente sarà una sfida continua, anche per chi credeva di essere ormai al sicuro. Cerchiamo di farci trovare pronti, allora.

Buon 2009 a tutti!

P.S.: so di essere stato a lungo assente dal blog, se non per qualche commento. L’ultimo articolo risale ad agosto, voglio dire… Beh, sarà una sfida anche tenere aggiornato questo sito!

Published in: on mercoledì, 31 dicembre 2008 at 18.27  Comments (4)  

Baraonda energetica, VII: il nucleare, quarta parte

Quarta parte sull’analisi dell’energia nucleare, incentrata sui costi del nucleare civile.

Quanto costa costruire una centrale nucleare?
In termini assoluti, a parità di potenza reale prodotta, costa parecchio rispetto ad impianti a carbone o a gas, intorno rispettivamente al 50-200% in più. Rispetto ad impianti eolici e solari, invece, nettamente meno. In uno studio del Massachussets Institute of Technology (MIT) del 2003, il costo “sulla carta” di una centrale nucleare viene stimato in circa duemila dollari al kW di potenza installata. Pareggiando il valore del dollaro con l’euro (in maniera generosa, visto che oggi la divisa europea vale il 50% più di quella americana), ciò significa che una centrale nucleare da 1 GW di potenza nominale di tipo “classico” PWR/BWR, o magari qualche sua evoluzione come l’EPR, costa nominalmente due miliardi di euro: valore circa doppio di quello di una centrale a carbone, e circa triplo di quello di una centrale a gas a ciclo combinato.

Tra le centrali di produzione “massiccia”, si tratta certamente della spesa più ingente. La stima del MIT non è l’unica (alcune altre riportano 1200-1500 euro al kW installato) ma rende l’idea delle cifre in gioco. Questo fa capire che la costruzione delle centrali nucleari sia possibile solo grazie all’azione di grandi banche o dello Stato, il che si traduce in un’ulteriore incremento delle spese dovute agli interessi annuali. La cosa si fa più onerosa se si considera che i tempi di costruzione delle centrali nucleari non sono brevissimi: se sulla carta i tempi di costruzione dovrebbero essere sui quattro anni (con costruttori come l’americana Westinghouse che dichiarano 36 mesi per il completamento di una centrale), è possibile che ci possano essere dei ritardi che facciano slittare il momento in cui la centrale produrrà effettivamente elettricità, e che aumentino gli interessi sul prestito iniziale. Il già citato reattore finlandese di Olkiluoto-3, pur avendo la “scusante” di essere il primo reattore di tipo EPR al mondo, è in costruzione dalla primavera del 2005 ma per problemi varî non entrerà in produzione prima del 2010, quando la compagnia francese Areva aveva previsto inizialmente la piena operatività alla fine del 2008. C’è da ricordare, tuttavia, che alcuni recenti reattori costruiti in Cina, con uno stretto controllo sui tempi e sul budget, sono stati completati secondo la tabella di marcia.

Stimando un tasso d’interesse del 5% annuo, e tempi di costruzione di circa sei anni, l’investimento totale per un reattore da 1 GW può essere stimato in circa 2.68 miliardi di euro. Per i reattori di tipo CANDU i costi lievitano ulteriormente, soprattutto a causa dell’uso di acqua pesante pura al 99.75%, ma sono generalmente compensati da altri vantaggi, tra cui una maggiore efficienza complessiva e l’assenza della necessità di impianti di arricchimento dell’uranio. L’evoluzione ACR-1000, reattore di III generazione, fissa come obiettivo un costo di 1000 dollari al kW installato.

Non è finita. A questi costi, valevoli con diversi parametri anche per centrali termoelettriche o idroelettriche, si devono aggiungere anche quelli specifici di smantellamento (il tecnico termine inglese è decommissioning), cioè di quei costi necessari per la messa in sicurezza dei reattori nucleari dopo che hanno esaurito il loro ciclo vitale. Questa pratica è fondamentale perché i reattori risultano contaminati dopo un utilizzo lungo decenni. Uno studio del 2003 dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) stima, sempre per un reattore da 1 GW, costi di smantellamento di 200-500 milioni di dollari per il tipo PWR, 300-550 per un BWR e 270-430 per un reattore CANDU. Il costo dello smantellamento può anche non essere compreso nell’investimento iniziale ma ricaricato preventivamente sul costo del kilowattora prodotto.

In soldoni, quanto ci costerebbe l’energia prodotta da una centrale nucleare?
Ai costi di costruzione della centrale, vanno aggiunti quelli per le operazioni e la manutenzione (abbreviato generalmente O&M) dell’impianto, quelli per il suo smantellamento, e quelli per il combustibile. Il già citato studio del MIT è autorevole ma pecca in difetto per alcuni fattori: in primis, la vita media di un reattore nucleare si può stimare in 40 anni, ma con progetti recenti potrebbe arrivare anche a 60; come secondo punto, stima un costo per l’O&M di 1.5 centesimi di dollaro al kWh prodotto, affermando che 1.3 centesimi sono un limite minimo per il caso americano, mentre invece è addirittura superiore alla media del 2007 di 1.29 centesimi al kWh, riferito a tutta l’industria nucleare civile americana, e già nel 2003 tale valore era di 1.4 c$/kWh (si noti come, naturalmente, i costi di O&M per le centrali nucleari siano sensibilmente più alti rispetto a quelli di altri tipi di centrali); ed in terzo luogo, stima come caso migliore un’efficienza dell’impianto (cioè, come rapporto tra energia effettivamente prodotta e quella che nominalmente potrebbe produrre) dell’85%, quando le centrali nucleari statunitensi sono ben oltre tale valore, arrivando al 91.8% di efficienza, e niente vieta di raggiungere efficienze maggiori con i reattori più moderni. Il reattore coreano Wolsong-4, di tipo CANDU, ha un’efficienza del 97.2%. In sostanza, lo studio del MIT sembra che miri a scoraggiare il nucleare, al fine però di adottare un più massiccio uso di gas e carbone, con il quale il nucleare è paragonato.

Stimando dunque, in un caso plausibilmente ingeneroso, un’efficienza dell’impianto del 90% ed una vita di 40 anni, si ha che il reattore nella sua vita produrrà circa 315.6 miliardi di kWh di energia elettrica, su ognuno dei quali il costo della costruzione della centrale peserà per circa 1.9 centesimi di euro. Ipotizzando un (generoso, secondo i dati OCSE) costo di smantellamento di 600 milioni di euro, ci si devono aggiungere circa 0.19 centesimi di euro. Per i costi di operazioni e manutenzione, si può considerare la media americana di 1.3 centesimi al kWh, e paragonarla ancora una volta con gli euro. Inoltre, c’è da considerare il consumo del combustibile nucleare: a differenza di altri impianti, quali il carbone ed il gas, tale voce è solo marginale nella produzione di energia elettrica, e si riporta un valore di 0.47 centesimi al kWh per l’industria nucleare americana del 2007 (di 69 reattori PWR e 35 BWR), comprendenti i costi di estrazione ed arricchimento dell’uranio e la costituzione del fondo per lo stoccaggio dei rifiuti. In totale, dunque, un kilowattora di energia elettrica prodotto da una centrale nucleare costa circa 3.85 centesimi di euro. Si noti che un utente privato italiano paga un kWh di elettricità circa 19 centesimi, un valore quasi 5 volte superiore.

C’è da aggiungere che alcuni parametri di costo possono essere assai variabili. Nel conto, si sono considerati i riferimenti dell’industria nucleare americana, efficiente e con tanta esperienza alle spalle, per cui i costi di O&M e del combustibile potrebbero anche raddoppiare in un ipotetico caso italiano. D’altra parte, si può ipotizzare una vita della centrale più lunga; conti più affidabili sul capitale iniziale (che non viene stanziato tutto all’inizio); efficienze migliori dei nuovi impianti e così via. C’è da dire che, nonostante queste variabili, il nucleare rimane comunque una fonte energetica economicamente competitiva: ricordando ancora lo studio del MIT, esso riporta come valori più ottimistici rispettivamente 4.4 e 3.8 centesimi al kWh per impianti a carbone e a gas a ciclo combinato. La convenienza dell’energia nucleare può anche dipendere dalla presenza o meno della carbon tax, che viene applicata alle centrali a carbone, petrolio o gas ma non a quelle nucleari.

A titolo di confronto, i soli costi di costruzioni della centrale solare termodinamica spagnola di Andasol-1, calcolati su un tempo di 40 anni, incidono su ogni kWh prodotto dalla centrale per ben 11.4 centesimi di euro al kilowattora; il costo un turbogeneratore eolico da 2 MW di potenza nominale e dal costo di 3.5 milioni di euro, operante per 30 anni con un’efficienza del 25%, inciderebbe per 5.2 centesimi al kWh, ancora una volta senza contare i costi di O&M (di cui mancano dati abbastanza affidabili).

Come funzionano i reattori nucleari autofertilizzanti?
L’uranio-238 non è un materiale fissile, cioè non subisce una fissione nucleare tramite bombardamento di neutroni. Tuttavia, è un materiale fertile, cioè può essere trasformato in materiale fissile. Questo avviene tramite il bombardamento con neutroni veloci (cioè neutroni con energia cinetica di almeno 1 MeV, megaelettronvolt), che trasmutano l’238U in 239Pu (plutonio-239) in circa un paio di giorni, e tale materiale è infine fissile. Il concetto di reattore autofertilizzante (breeder, in inglese) sta proprio nel principio secondo cui esso genera il materiale fissile di cui ha bisogno. Addirittura, i reattori autofertilizzanti ad uranio-plutonio (come vengono detti) possono produrre più combustibile di quanto ne consumino!

I principali ostacoli alla costruzione di reattori autofertilizzanti risiedono nel fatto che l’utilizzo di neutroni veloci implica un uso particolare di materiali e di sistemi di raffreddamento, che rendono la centrale economicamente meno conveniente di quelle tradizionali a fissione, ed il costo praticamente nullo del combustibile viene superato dagli aumentati costi di esercizio. In futuro, però, le cose potrebbero cambiare.

Quelli descritti sono i cosiddetti fast breeder, cioè reattori autofertilizzanti a neutroni veloci. Esiste, come già accennato, un ciclo autofertilizzante che però coinvolge il torio-232, fertile, che viene tramutato in appositi reattori (come il CANDU) in uranio-233, che è un isotopo fissile. I vantaggi di questa reazione sono notevoli, a partire dal fatto che si usano neutroni termici e non veloci, e che le scorie radioattive così prodotte diventano meno radioattive dell’uranio naturale già dopo circa un secolo dalla loro produzione.

Possiamo coprire tutto il nostro fabbisogno di energia elettrica con le centrali nucleari?
No. La questione è semplice: una centrale nucleare non è un dispositivo capace di accendersi e spegnersi all’istante, né è capace di variare in tempi brevi la potenza prodotta. Ci sono tempistiche dell’ordine di uno o due giorni. Dunque, si può dire che una centrale nucleare debba sempre andare al massimo del suo regime, tranne nei giorni di manutenzione e rifornimento. Il fatto è, però, che il consumo di energia elettrica (in Italia, ma similmente anche in qualsiasi altro Paese del mondo) non è costante ma varia durante il giorno, dai circa 50 GW del dì sino ai 28 GW nelle ore notturne. Se si producessero più di 28 GW di energia elettrica dal nucleare, ci sarebbe della potenza in più che non utilizzeremmo, e che potremmo vendere all’estero solo se in quantità non eccessive.

Dunque, verosimilmente, si può produrre sino al 50-55% del proprio fabbisogno elettrico senza causare problemi di sovrabbondanza e lasciando spazio di “manovra” per ulteriori pianificazioni energetiche, ma oltre non è forse conveniente spingersi. Il caso della Francia, che produce elettricità dal nucleare per il 78% del proprio fabbisogno, è piuttosto al limite: è noto che i Transalpini sono grandi esportatori di elettricità, verso l’Italia in particolar modo, ma è ben difficile che potranno estendere tale percentuale.

In Italia non siamo capaci di gestire neppure i rifiuti solidi urbani, figuriaci quelli radioattivi! Non possiamo permetterci il nucleare.
Sono affermazioni che fanno del disfattismo la propria base, ma che non hanno argomentazioni serie a proprio supporto. L’Italia è in grado di produrre personale tecnico per centrali nucleari di prim’ordine, e l’ENEL sta acquisendo esperienza nella costruzione di reattori nucleari. Del resto, il nostro Paese è già stato una potenza dell’industria nucleare civile, e nulla vieta che possa ridiventrarlo.

Con questo concludo la serie di articoli riguardanti il nucleare. Una serie corposa, e che tuttavia omette ancora una notevole quantità di dettagli ampiamente divulgabili senza scendere troppo nel tecnico. Ma è ormai tempo di passare ad altre fonti.

Precedenti articoli sulla questione energetica:

Published in: on martedì, 19 agosto 2008 at 0.02  Comments (12)  
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Baraonda energetica, VI: il nucleare, terza parte

Continuo la disquisizione sul nucleare, parlando di economia, sicurezza e fattibilità del nucleare. Purtroppo, data la complessità dell’argomento trattato, mi rendo conto che è necessaria almeno una quarta parte affinché si trattino tutti i punti con un dettaglio sufficiente per un livello divulgativo. Questo fa sì che gli altri due articoli che ho scritto, uno sull’energia solare ed uno sull’eolica, sembrano appena abbozzati; ed in fondo così è. Ma dato che l’Italia parebbe apprestarsi a ritornare sulla via del nucleare civile, preferisco chiarire il più possibile i punti a riguardo, per riservare in futuro ulteriori delucidazioni sulle altre fonti energetiche.

Quanto è sicura una centrale nucleare?
È una domanda cui non si può rispondere in maniera univoca, ma a grandi linee si può dire: molto. Si tratta di impianti complessi e che trattano reazioni potenzialmente molto pericolose, e dunque sono progettati per prevenire, controllare e resistere ai danni molto più delle comuni centrali termoelettriche. Anche il personale è grandemente specializzato.

Nella storia del nucleare civile, si sono avuti decine di incidenti alle centrali nucleari, di vario tipo, ma quelli che hanno comportato la morte del personale della centrale o rischi più che minimi alla popolazione locale si contano sulle dita della mano. Gli incidenti alle centrali nucleari sono classificati secondo la scala INES (International Nuclear Event Scale), una scala qualitativa dal valore di 0 a 7 con andamento basilarmente logaritmico (nel senso che un incidente di livello 7 è circa 107 volte più pericoloso – a livello di contaminazione – di un evento di livello 0). Gli eventi sino al livello 3 sono classificati come guasti, cioè come malfunzionamenti di varia gravità ma senza danni sensibili all’ambiente ed alla popolazione esterna, con esposizione alle radiazioni ben al di sotto dei limiti di legge. Dal livello 4 in poi sono incidenti che possono prevedere eventuali opere di bonifica all’esterno.

Nella storia del nucleare civile, se si escludono gli impianti di prima generazione degli anni ’50, c’è stato un solo incidente di livello 5, nel 1979 all’impianto americano di Three Mile Island (di cui non è ancora dimostrata un’incidenza sulla salute della popolazione locale); nessun incidente di livello 6; ed un incidente di livello 7, nel 1986 a Chernobyl, nell’odierna Ucraina. Riguardo a quest’ultimo evento, al di là delle diatribe sul numero di vittime che ha causato, è tale la particolarità delle condizioni, a partire dalla mancanza di sicurezza dell’impianto, per finire con l’incompetenza dei tecnici passando dall’irresponsabilità degli stessi (sembrava quasi che stessero cercando l’incidente) da far passare l’intero caso come un evento sostanzialmente irripetibile in una centrale, non tanto moderna ma appena decente, della seconda generazione, tipo i comuni reattori PWR, BWR e CANDU.

Il recente (luglio 2007) terremoto di 6.8 gradi della scala Richter vicino alla centrale giapponese di Kashiwazaki-Kariwa hanno fatto rilasciare una quantità di fluidi nell’ambiente non più radioattivi di un rilevatore di fumo da casa. Gli ultimi guasti alla centrale francese di Tricastin sono stati classificati tutti come livello 0 o 1. La grande eco che ne è scaturita si può dire che sia dovuta sostanzialmente a paure recondite, grandemente incrementate proprio dall’incidente di Chernobyl, e da allora rimaste. Ma proprio in base a questi timori, le comunicazioni sui guasti alle centrali nucleari sono sempre molto dettagliate e trasparenti, anche se, per le loro effettive conseguenze, forse non si meriterebbero nemmeno un trafiletto nel giornale locale. Ma, ovviamente, è meglio sapere le cose piuttosto che ignorarle.

A partire dalla seconda generazione, la sicurezza delle centrali è garantita da vari tipi di espedienti. Si tratta di sistemi attivi e ridondanti (cioè, ripetuti) di sicurezza, al fine di fermare il reattore in tempo relativamente breve, in caso di falle al sistema di raffreddamento. Tutto il nocciolo del reattore è contenuto in un “vascello” di contenimento, in cemento armato, capace di isolare eventuali fughe radioattive. Infine, sono presenti vari sistemi di emergenza per il raffreddamento ed il contenimento di materiale radioattivo. Anche i reattori sovietici di tipo RMBK prevedono tali dispositivi, ma bisogna ricordare che i reattori 3 e 4 di Chernobyl non avevano il vascello di contenimento, che avrebbe ridotto enormemente la portata del disastro.

Le centrali nucleari di terza generazione, come detto nel precedente articolo, sono generalmente evoluzioni più sicure delle più comuni centrali nucleari di seconda generazioni. I miglioramenti principali riguardano l’adozione di sistemi di sicurezza passivi, cioè che non richiedono né l’uso di sensori né tantomeno l’intervento dell’uomo, ed è certo come l’espansione termica dei metalli. I progetti prevedono un “tempo di sicurezza” di 100 milioni di anni, cioè una centrale di terza generazione in funzione dall’era mesozoica avrebbe il 50% di probabilità di avere un incidente grave. Inoltre, queste centrali sono progettate per resistere anche all’impatto di un grosso aereo, scongiurando anche pericoli terroristici.

A questo punto è chiaro che la costruzione di una moderna centrale di terza generazione rappresenta un rischio molto basso per la popolazione locale, ed un impatto trascurabile anche nel caso dei guasti più gravi. Tuttavia, il timore del nucleare del dopo-Chernobyl rende queste considerazioni del tutto soggettive.

Quanto uranio c’è nel mondo?
Molto. Ma non tutto è conveniente da estrarre: in effetti, la maggior parte dell’uranio della Terra si trova in mare. Quello nelle miniere e conveniente da estrarre, invece, è relativamente poco: circa 5 milioni di tonnellate, bastanti per circa mezzo secolo o qualcosa più al ritmo di consumo attuale delle centrali nucleari. Tuttavia, per l’uranio non c’è mai stata una ricerca esaustiva delle miniere, così come invece c’è stato per i giacimenti di petrolio, e pertanto tale limite si può entendere, ma ovviamente non è lecito farvi affidamento.

Di certo, però, le centrali nucleari possono sfruttare anche il torio-232, con impianti noti e ben collaudati come il CANDU, ed il torio è quattro volte più diffuso dell’uranio in natura. Inoltre, il ciclo nucleare a torio ha il vantaggio di produrre una minore quantità di scorie ad alta attività, tra cui oltretutto il plutonio che si può usare nelle bombe atomiche.

Inoltre ci sono i già menzionati reattori autofertilizzanti, i cui costi operativi sono decisamente più alti di quelli degli impianti classici, ma che sono in grado di consumare pressoché tutto l’uranio che viene introdotto come combustibile, perché con i loro “neutroni veloci” sono capaci di trasformare l’238U in 239Pu (plutonio-239), che è materiale fissile. In questo modo, si risolverebbe quasi del tutto il problema dell’approvigionamento di combustibile nucleare. (Si noti che anche il ciclo del 232Th nei reattori CANDU è autofertilizzante, anche se non usa neutroni veloci.)

Infine, come si è detto, qualcosa si può ottenere se si arriva alla realizzazione del Rubbiatron, cui ho accennato nello scorso articolo, e che potrebbe inoltre aiutarci a risolvere il problema delle scorie nucleari finora prodotte a livello mondiale.

Ho letto che l’uranio ha raggiunto dei prezzi esagerati in pochissimo tempo! Questo non mina l’economia del nucleare civile?
No. O almeno, non ancora.

Negli anni ’70, in reazione alle susseguenti crisi energetiche il mondo spinse molto nella direzione del nucleare, con il risultato che il prezzo dell’ossido di uranio (U3O8) aumentò parecchio. Eppure non ci fu alcun tracollo dell’industria nucleare. Per lungo tempo, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, il prezzo dell’uranio fu molto basso, intorno ai 10 dollari a libbra, in seguito anche ai trattati di smantellamento delle testate nucleari che resero disponibili grandi quantità di uranio da usare nei reattori, facendo calare notevolmente la richiesta mondiale.

Ma tra il gennaio del 2005 ed il luglio del 2007 il prezzo dell’ossido di uranio è passato dai 20 ai ben 140 dollari a libbra. Tuttavia non ci fu un così improvviso aumento della richiesta dell’uranio, né le scorte di uranio si ridussero così drasticamente in poco tempo. Non si trattava, quindi, del naturale meccanismo della domanda e dell’offerta ma più probabilmente si è trattato del frutto di speculazioni economiche, forse in seguito ad un rinnovato (ma ancora non concreto) interesse nell’industria nucleare a livello mondiale, in seguito anche al rialzo dei prezzi del barile di petrolio.

In ogni caso, il prezzo dell’uranio è risultato sopravvalutato ed il trend è stato poi spezzato. Ad oggi (agosto 2008), il prezzo dell’ossido di uranio è tornato intorno ai 60 dollari alla libbra.


Ma in Italia si possono costruire centrali nucleari? I risultati del referendum del 1987 non lo impedirebbero?
Qui bisogna fare subito chiarezza: i referendum del 1987 non hanno affatto imposto la chiusura delle nostre centrali nucleari. Lo sviluppo dell’industria nucleare civile fu frutto di un accordo economico internazionale cui l’Italia prese parte, e su tali questioni, in base proprio alla nostra Costituzione, il popolo italiano non può mettere naso. I tre quesiti riguardanti il nucleare stabilirono solo aspetti marginali della nostra politica energetica, e per la precisione che:

  1. lo Stato Italiano non può intervenire se un comune nega l’autorizzazione alla costruzione di una centrale nucleare nel suo territorio;
  2. lo Stato Italiano non può elargire contributi compensativi ai comuni che ospitano centrali nucleari;
  3. l’ENEL non può partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero.

Furono i successivi governi ad interpretare il risultato del referendum come un’intenzione, da parte degli Italiani, di non fare più uso delle centrali nucleari. L’interpretazione fu probabilmente giusta, ma di sicuro gli Italiani pagano ancora oggi le conseguenze della dismissione anticipata delli suoi impianti nucleari.

In ogni caso, i giuristi reputano che un’opinione pubblica, se non più così sentita, si può certamente sovvertire con un’azione di governo dopo 20 anni dal referendum, per cui l’esecutivo non ha ostacoli nella sua azione. Il terzo punto, comunque, era stato già abrogato nel 2004, e da allora l’ENEL ha già partecipato alla costruzione di diverse centrali nucleari nell’Est europeo (in Slovenia in particolare).

Da più di 20 anni il numero delle centrali nucleari al mondo è pressoché costante: siamo sicuri che il nucleare convenga?
Questa è una considerazione che lascia il tempo che trova, se non correttamente interpretata. Infatti, non si capirebbe perché, nonostante la richiesta di energia elettrica sia sempre aumentata in questi 20 anni, la parte prodotta dal nucleare è sempre e comunque intorno al 16-17%.

Negli Stati Uniti le centrali nucleari sono 104 dal 1978, eppure la loro produzione è passata dai 291 TWh del 1978 agli 807 TWh del 2007. Nel mondo, è aumentata in ogni caso la potenza installata, e proporzionalmente ancor di più l’energia prodotta annualmente dalle centrali nucleari:

Produzione ed installazione del nucleare civile mondiale (da Wikipedia)

Produzione ed installazione del nucleare civile mondiale (da Wikipedia)

I motivi non sono difficili da capire. L’efficienza dei reattori nucleari è aumentata drasticamente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, passando da circa il 50% ad oltre l’80%. In secondo luogo, non costruire più centrali nucleari non significa che non vengano costruiti più reattori: infatti, ogni centrale può constare da diversi reattori, anche 7-8. Questa politica è stata certamente determinata dall’incidente di Chernobyl e dal diffondersi del timore verso il nucleare civile, pertanto l’installazione di nuovi reattori è certamente una mossa, dal punto di vista dell’opinione pubblica, meno rischiosa.

Si può anche obiettare che, in ogni caso, nessun Paese che non sfruttasse il nucleare civile ha poi cominciato a farlo. C’è tuttavia da ricordare che stiamo parlando di periodi in cui i prezzi dei combustibili come petrolio, gas e carbone erano molto abbordabili, e non si parlava ancora di riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. I costi e le tecnologie delle altre centrali erano ugualmente più convenienti. Non c’è quindi da stupirsi se il nucleare civile non si sia diffuso ulteriormente.

Ora, invece, le cose stanno cambiando nettamente e molti Paesi in forte crescita economica, tra cui soprattutto Cina ed India, non trascurano questa fonte di energia. In ogni caso, a seguito dell’incidente di Chernobyl solo un Paese ha dismesso in blocco le proprie centrali nucleari: l’Italia.

Precedenti articoli sulla questione energetica:

Published in: on mercoledì, 13 agosto 2008 at 6.15  Comments (4)  
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